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Dino

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O LA FACCIA O LA VITA

Editoriale di Marco Travaglio

08 novembre 2025

Tutti sanno come finirà l’assedio russo a Pokrovsk: con la resa o con lo sterminio degli ucraini circondati e minoritari (uno contro otto). Come le battaglie di Mariupol, Bakhmut, Avdiivka e il blitz della regione russa di Kursk. Tutti conoscono pure il finale della guerra: la Russia si terrà i territori che voleva (quelli filorussi di Lugansk, Donetsk, Zaporizhzhia e Kherson, più un cuscinetto di confine tra Sumy e Kharkiv) in cambio di quelli occupati in sovrappiù. Che Kiev non avrebbe riavuto i territori perduti lo disse il generale Usa Milley nel novembre 2022, dopo la prima e unica vera controffensiva ucraina. Lo ammisero gli 007 ucraini due anni fa, dopo il tragico flop della seconda. Lo confessò Zelensky 11 mesi fa. Ma nessuno, a Kiev come nell’Ue nella Nato, voleva perdere la faccia: quindi si continuò ad armare e finanziare l’Ucraina senza spiegare ai poveri soldati rimasti vivi che non erano fuggiti dal fronte e dalla leva perché dovessero ancora combattere e morire. La panzana di Putin che vuole l’intera Ucraina è incompatibile con gli appena 180 mila soldati inviati nel 2022 contro un esercito grande il triplo, con le aperture fatte un mese dopo ai negoziati di Istanbul e con la logica (il centro-ovest russofobo, anche se lo avesse occupato, avrebbe faticato a mantenerlo, pieni com’è di armi, mercenari e terroristi neonazisti). Ma fa comodo a chi ha perso la guerra per fingere di averla vinta e giustificare le centinaia di migliaia di vite e di miliardi sacrificati per difendere una causa persa, anziché negoziare e salvare il salvabile.

La propaganda occidentale, come le sanzioni, danneggia chi la fa e crede alle balle che racconta. Tanto a morire sono solo gli ucraini. L’unico a dire la verità (“Zelensky non ha più carte”) è Trump, il più grande bugiardo del mondo che però è l’unico in Occidente a non rischiare la faccia: la guerra non l’ha mica voluta lui. Tutti gli altri fischiettano, raccontando coi loro trombettieri che Pokrovsk resiste (come Mariupol, Bakhmut, Avdiivka). Ma già si preparano a minimizzarne la caduta come la volpe con l’uva: “Tanto è solo un cumulo di macerie”. Fingono di non sapere che i russi non assediano Pokrovsk da 14 mesi perché attratti dalle bellezze del luogo: ma perché la città è l’ultimo avamposto della Maginot a ferro di cavallo che la Nato dal 2014 ha creato in Donbass per evitare che gli indipendentisti e poi i russi dilagassero nelle grandi steppe indifese dell’Ucraina centrale. Oltre quella linea non ci sono più ostacoli verso Dnipro e la Capitale. Questo Zelensky e i vertici di Nato e Ue lo sanno benissimo. Se si decidessero a dirlo e ad agire di conseguenza salverebbero migliaia di vite. Ma la loro priorità è un’altra, quella di sempre: salvare la faccia e la poltrona.

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SIAMO IN RUSSIA

Editoriale di Marco Travaglio

09 novembre 2025

Articolo 3 della Costituzione: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Da due giorni non facciamo che rileggerlo, nel timore di aver capito male o di non esserci accorti che è stato abrogato. Invece è sempre lì e dice sempre la stessa cosa: non si possono discriminare cittadini per alcun motivo, ivi comprese le loro opinioni politiche. Strano, perché quasi ogni giorno viene discriminato qualcuno. Di solito si tratta di russi, ma anche ucraini del Donbass o della Crimea, perlopiù artisti bravi e famosi invitati a esibirsi e poi cacciati a pedate su richiesta di entità straniere (siamo o non siamo governati dai sovranisti?), tipo l’ambasciata di Kiev, o gruppi esteri filoucraini e antirussi. E sempre per opinioni politiche o financo per luogo di nascita, che li trasformano in “putiniani” o “amici” o “complici” o “propagandisti di Putin”. Un’equazione (governo=popolo) che ovviamente non vale su Israele. Si dirà: ma sono stranieri, mentre la Costituzione si riferisce agli italiani anche se non lo specifica (sarebbe bizzarro se gli italiani fossero liberi di discriminare gli stranieri, ma lasciamo andare).

L’altro giorno però è stato discriminato un cittadino italiano: lo storico Angelo D’Orsi, laureato con Bobbio, ordinario di Storia del pensiero politico all’Università di Torino dove ha insegnato per 46 anni, autore di oltre 50 volumi tradotti all’estero, biografo di Gramsci, Ginzburg e Gobetti, fondatore e direttore di riviste scientifiche e collaboratore dei principali giornali. Il 12 novembre D’Orsi doveva tenere una conferenza su “Russofobia, russofilia, verità” al Polo del 900 a Torino, fra i consueti strilli preventivi di nazionalisti ucraini e noti “liberali” tipo i radicali, Carlo Calenda e Pina Picierno. Poi l’altroieri ha appreso dai social della Picierno, eurodeputata “riformista” Pd e (che Dio perdoni tutti) vicepresidente del Parlamento Ue, che “l’evento della propaganda putiniana è stato annullato. Ringrazio il sindaco Lo Russo (si chiama proprio così, ndr) per la sensibilità, il Polo del 900 e tutti coloro che si sono mobilitati a livello locale e nazionale”. Nobile mobilitazione finalizzata a tappare la bocca a un prof che minacciava di dire cose sgradite ai mobilitati, anche se nessuno ancora le conosceva: cioè a censurare le sue opinioni politiche, come fanno le autocrazie e come la Costituzione proibisce di fare (mica siamo in Russia). Si attende ad horas il vibrante monito del capo dello Stato, massimo custode della Carta, e la dissociazione di Elly Schlein dalla sua eurodeputata e dal suo sindaco affinché D’Orsi possa parlare della russofobia. Senza più neppure il fastidio di doverla dimostrare.

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MA MI FACCIA IL PIACERE

Editoriale di Marco Travaglio

10 novembre 2025

Sua Altezza. “E Brunetta si alza ancora lo stipendio: 60 mila euro in più” (Stampa, 7.11). Ma bastavano anche le prime cinque parole.

Il nuovo Dante. “Il mio Inferno. La Commedia del potere, illustrato da Makkox, forse è l’unico testo scritto da un italiano dopo Dante che rivaleggi con l’originale’” (Tommaso Cerno, direttore del Tempo, Corriere della sera, 8.11). Petrarca e Boccaccio ancora rosicano.

L’autodenuncia. “Contro l’invadenza delle balle da talk show. Manuale minimo di resistenza televisiva” (Carlo Calenda, leader Azione, Foglio, 3.11). Carino da parte sua rinunciare per sempre ai talk show.

È fatta. “‘E mo’ ce lo siamo tatuati per la vita. Slavaukraina’. Lo scrive su X il leader di Azione Carlo Calenda postando la foto dell’ultimo tatuaggio appena fatto che ricalca lo stemma dell’Ucraina” (Ansa, 8.11). Appena l’ha saputo, Putin ha ordinato la resa.

Vittoria! “Finisce l’anno più nero per l’Armata russa” (Federico Fubini, Corriere della sera, 8.11). Ma infatti è Putin che ogni giorno implora Zelensky di smettere di sconfiggerlo.

Toghe rosse libiche. “Almasri arrestato in Libia. Meloni: sapevamo che non sarebbe rimasto impunito” (Giornale, 6.11). Purtroppo qualcuno che rispetta la legge prima o poi si trova.

La mosca cocchiera. “Non sono tra gli entusiasti dell’elezione di Mamdani a sindaco di NewYork… Non mi pare ci sia molto da festeggiare” (Ivan Scalfarotto, senatore Iv, X, 6.11). E niente, questi newyorkesi votano incuranti delle indicazioni dello statista pescarese. Peggio per loro.

Il virus dilaga/1. “Il riflesso Mamdani si vede in Puglia: Decaro propone 30 mila euro a fondo perduto alle giovani coppie che vogliono comprare casa” (Paolo Mieli, Radio 24, 5.11). Fatti Mamdani dalla mamma a prendere casa.

Il virus dilaga/2. “Cosa unisce la Banca d’Italia alla Cgil, l’Istat alle tute blu, la Corte dei Conti ai Cobas? Il filo rosso… rigorosamente di sinistra che arriva fino al neo-comunismo in versione Mamdani” (Mario Sechi, Libero, 8.11). Niente da fare: questi cosacchi ormai sono dappertutto.

Cavaliere, è lei? “La notizia dell’inchiesta per turbativa d’asta sulla vendita di San Siro, emersa nello stesso giorno in cui è stato firmato il rogito, è una coincidenza che ‘fa pensare’. Beppe Sala… lascia trapelare il disappunto” (Corriere della sera, 8.11). In effetti è strano che si indaghi su un affare quando viene concluso: dev’esserci qualcosa sotto.

Telefono senza fili. “Dubbi nel centrosinistra sul referendum. Minzolini scrive che Castagnetti, molto vicino a Mattarella, gli ha detto: ‘Non si può puntare tutto sul referendum sulla giustizia per battere Meloni, Schlein non percepisce la realtà, non ascolta nessuno’…” (Paolo Mieli, Radio 24, 6.11). Ma infatti: questa Schlein che non ascolta Minzolini che ha ascoltato Castagnetti che ascolta Mattarella. Dove andremo a finire, signora mia.

Avanti c’è posto. “L’ex ministro Salvi si schiera con il Sì. Della Vedova (+Europa): ‘Bene la separazione delle carriere. Ora la responsabilità civile dei giudici’” (Giornale, 3.11). “Giovanni Pellegrino: ‘Le carriere separate erano una proposta della sinistra” (Libero, 4.11). “Augusto Barbera: ‘Una riforma inevitabile, mia cara sinistra”, “Ortensio Zecchino: ‘Basta toni apocalittici, la separazione delle carriere era nella Bicamerale’” (Foglio, 4 e 5.11). I migliori testimonial del No sono quelli del Sì.

Scassese minaccia. È consigliabile che le fazioni che si stanno organizzando, a cominciare da quella dei magistrati militanti, si guardino dal farlo percepire come un appello al popolo a difesa della giustizia. Pensino a quali sarebbero le conseguenze di una interpretazione di questo tipo, in caso di una prevalenza del sì” (Sabino Cassese, Corriere della sera, 6.11). Se no?

L’altro Bobbio. “Luigi Bobbio: ‘Io, giudice, vi racconto perché l’Anm ha paura’” (Libero, 3.11). Ma chi, l’ex senatore di An nella leggendaria commissione Telekom Serbia? Il presidente provinciale di An a Napoli? Il capogabinetto della ministra Meloni? L’autore della norma anti-Caselli dichiarata incostituzionale dalla Consulta? Il diffamatore di Carlo Giuliani definito “feccia”? Il sindaco Pdl di Castellammare di Stabia che nominò il suo testimone di nozze “coordinatore della cabina di regia” con stipendio di 160mila euro l’anno più rimborsi per pranzi, cene e pernottamenti di lusso, ma dopo soli due anni fu sfiduciato dalla sua stessa maggioranza e poi trombato alle elezioni successive? Sì, tutte queste cose insieme.

Il titolo della settimana/1. “Schlein: ‘Io rivale di Silvia Salis? Solo un gioco patriarcale’” (Libero, 7.11). Ha stato Noè.

I titoli della settimana/2. “Casini, riflessioni di un protagonista del Parlamento” (Messaggero, 8.11). “Casini: ‘Il fattore Prodi: la destra si sconfigge grazie al voto moderato’” (Repubblica, 8.11). “Casini: ‘Ho detto no a Berlusconi, ma nel ‘94 aveva ragione lui’” (Libero, 8.11). “Casini: ‘Rifiutai di guidare FI. Ma per Berlusconi avrei lavorato’” (Giornale, 8.11). “Casini: ‘Perché ho rotto con Berlusconi’” (Stampa, 8.11). Su, dài, non fare il modesto: parlaci di quel bocciuolo di rosas di Totò Cuffaro.

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I GARANTI DEI GARANTI

Editoriale di Marco Travaglio

11 novembre 2025

La fiera del tartufo presenta, a grande richiesta, un nuovo spettacolo impagabile. Dopo il quadro desolante del Garante della privacy dipinto da Report, la Schlein, leader del Pd che nominò il presidente Pasquale Stanzione (ex presidente dell’assemblea provinciale del Pd a Salerno), chiede di azzerare l’intera autorità. E la Meloni, leader di FdI che ha nominato uno degli altri tre membri, il fratello d’Italia Agostino Ghiglia, risponde che è tutta colpa di Pd e 5Stelle (scordandosi che due “garanti” su quattro li ha scelti il centrodestra: Ghiglia e la prof filoleghista Ginevra Cerina Ferroni, vicepresidente). Anche Conte chiede l’azzeramento. E almeno il M5S, diversamente dagli altri, ha il merito di non aver scelto un suo iscritto o militante, ma l’esperto indipendente Guido Scorza (come la Giomi in Agcom e l’ad Salini in Rai ai tempi del Conte-1). Scorza infatti, pur costretto alcune volte ad astenersi quando il Garante giudicava gruppi assistiti dal suo ex studio legale specializzato in privacy, è stato l’unico dei quattro a non votare la maxi- multa a Report e a non avere un filo diretto col partito che l’ha messo lì. Ma azzerare oggi il Garante senza cambiare le regole di nomina significherebbe averne domani un altro lottizzato dai partiti. Salvo sperare che questi rinsaviscano e facciano come il M5S levando spontaneamente le grinfie dalle autorità che regolano Borsa, comunicazioni, antitrust, conflitti d’interessi, scioperi e privacy. Cosa mai accaduta: alla Privacy si sono succeduti l’ex deputato verde Paissan, l’ex Msi-An Rasi, l’ex presidente forzista della Calabria Chiaravalloti, l’ex deputato margheritico Soro, la ex giudice Iannini in Vespa, fino all’attuale trio Pd- FdI- Lega che ha stangato Ranucci. Chiunque scelga i membri delle autorità – il capo dello Stato, i presidenti delle Camere, il Parlamento a maggioranza qualificata, il Padreterno – il minimo della decenza sarebbe vietare per legge che a farne parte siano personaggi iscritti a partiti o loro debitori per candidature, incarichi, consulenze, prebende, e strapuntini.

Lo stesso dovrebbe valere per la parte “laica” del Csm, altro cronicario per politici trombati o in via di riciclo, che la schiforma Nordio porta da 10 a 26 triplicando l’autogoverno togato: un Csm per i giudici (10 laici + 20 togati), uno per i pm (10 laici + 20 togati) e un’Alta corte disciplinare (6 laici + 9 togati). I togati saranno scelti col sorteggio secco, cioè a caso, fra i magistrati disponibili. Invece i laici-politici usciranno da un sorteggio finto, estratti da un listino di persone votate dai partiti in Parlamento: più corto sarà il listino, più il sorteggio sarà un’elezione, anzi una lottizzazione fra i partiti. Se vincerà il Sì lo scandalo Report-Privacy, al confronto, ci sembrerà Disneyland.

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LA DONNA RAGNO

Editoriale di Marco Travaglio

12 novembre 2025

Dopo aver farfugliato frasi vaghe e imbarazzate sulla schiforma Nordio che il suo idolo Borsellino avrebbe gettato dalla finestra, Giorgia Meloni ha detto finalmente qualcosa di preciso: “Il magistrato che sbaglia sarà giudicato da un organismo terzo perché, come dice l’Uomo Ragno, da un grande potere derivano grandi responsabilità”. Dal che si intuisce quale trust di giuristi abbia ispirato la schiforma (i fumetti Marvel). Ma si sospetta pure che la premier non ci abbia capito nulla. Intanto non sa chi sia il “magistrato che sbaglia”. In Italia le richieste del pm possono essere smentite dal gip, dal gup, dal Tribunale, dal pg d’appello, dalla Corte d’appello, dal Pg di Cassazione e infine dalla Cassazione (salvo rinvio a nuovo appello e nuova Cassazione). Quindi è ovvio e fisiologico che 8-12 passaggi producano pronunce difformi. Che non sono errori: a un certo punto bisogna mettere il punto e per convenzione ha ragione chi ha l’ultima parola. Il che non significa affatto che gli altri avessero torto. L’errore giudiziario è quando si sbaglia persona, o si scambia per prova ciò che non lo è, o si ignora un alibi o un elemento incriminante, o si crede a un bugiardo. Se l’errore è in buona fede, involontario o inevitabile, a rimborsare la vittima è lo Stato. Se è commesso con dolo o colpa grave da un magistrato che l’ha fatto apposta o ha lavorato da cane, ne risponde personalmente con sanzioni disciplinari e risarcisce di tasca sua.

La “riforma” riduce gli errori veri e le difformità di giudizio? No, li moltiplica. Oggi il pm e il giudice, con formazione, carriera e concorso comune, sono educati all’imparzialità: cioè a cercare entrambi la verità processuale. Una volta separato dal giudice e trasformato in “avvocato dell’accusa”, il pm sarà attratto dalla cultura poliziesca del risultato: tot richieste di arresto, di perquisizioni, di rinvio a giudizio, di condanna. Spetterà solo al giudice accertare la verità con imparzialità: quindi boccerà molte più richieste del pm e farà pure una pessima figura dinanzi a un’opinione pubblica scandalizzata dai giudici “buonisti” e affezionata ai pm castigamatti. A tutto scapito dei cittadini perbene. Oggi chi viene indagato e denunciato ingiustamente può uscirne subito grazie al pm imparziale che lo fa archiviare o prosciogliere già in fase d’indagine: domani dovrà aspettare l’udienza preliminare o il dibattimento, cioè anni e anni. Ma – dice la Meloni – ora gli “errori” dei magistrati non li giudica più il Csm (anzi, i due Csm), ma l’Alta corte disciplinare: un “organo terzo”, cioè imparziale. Forse non sa che sarà composta da 9 magistrati e 6 laici: lo stesso rapporto di due terzi dei Csm (20 magistrati e 10 laici per ciascuno). In che senso quei due terzi sarebbero più terzi degli altri due terzi?

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A PROPOSITO DI BORSELLINO

Editoriale di Marco Travaglio

13 novembre 2025

Quando sbagliamo, diversamente dai bufalari che raccontano volutamente una ventina di balle al giorno, ci scusiamo con i lettori. E lo facciamo oggi per aver preso per buone due citazioni sbagliate di Falcone e Borsellino, riprese da pubblicazioni scritte e online. La frase di Falcone pro carriere separate purché il pm non passi sotto l’esecutivo rispecchia il suo pensiero ripetuto varie volte, ma non è tratta da un’intervista del ’92 a Repubblica. Anche quella di Borsellino fotografa il suo pensiero fermamente contrario alla separazione delle carriere, ma non è tratta da un’intervista del ’90 a Samarcanda. Fine delle scuse e una domanda: ma questi magliari di destra che infestano giornali e web con la deduzione “Borsellino quel giorno non parlò da Santoro, dunque era per le carriere separate” chi credono di fregare? La loro fortuna è che allora non c’erano gli smartphone. Sennò verrebbero inondati di filmati di Borsellino contro le carriere separate. Grazie al cielo alcuni suoi interventi sono stati pubblicati da libri e riviste.

L’11.12.1987, parlando a Marsala su “Il ruolo del pm con il nuovo codice”, Borsellino definì la figura del pm “la più gravosa ma insieme la più esaltante nel nuovo processo… perché principalmente a essa è affidato il concreto attuarsi di quei principi di civiltà giuridica che col sistema accusatorio si vogliono introdurre. E le ricorrenti tentazioni del potere politico, quali ne siano le motivazioni, di mortificare obiettivamente i magistrati del Pm, prefigurandone il distacco dall’ordine giudiziario, anche attraverso il primo passo della definitiva separazione delle carriere, non incoraggiano certo i ‘giudici’ – ché tali tutti sentono di essere – a indirizzare verso gli uffici di Procura le loro aspirazioni”. Quindi tutti, requirenti e giudicanti, si sentono “giudici” e devono restare un unico ordine giudiziario. Il 16.3.1987, in un convegno a Mazara del Vallo, Borsellino contestò chi voleva, come fa ora Nordio, sottrarre i giudizi disciplinari al Csm: “La repressione disciplinare degli organi di autogoverno (Csm) è molto più incisiva ed efficace di quanto si creda e si sostenga da chi spesso mira all’altro non confessato scopo di attentare all’autonomia e indipendenza della magistratura, asserendo l’inidoneità e insufficienza di tale specie di sanzione”. Anche per questo Msi, An e FdI si opposero sempre a separare le carriere. Il 25.2.2004 un giudice della corrente MI (come Borsellino) ricordò in tv ad Augias: “Borsellino divenne procuratore a Marsala dopo essere stato giudice istruttore e giudice civile. Probabilmente in alcune indagini di mafia queste competenze gli sono servite”. Sapete chi era? Alfredo Mantovano, oggi sottosegretario a Palazzo Chigi. Vostro onore, non ho altre domande.

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RISPOSTA SBAGLIATA

Editoriale di Marco

14 novembre 2025

Dopo il cronista licenziato per domanda sbagliata (che in realtà era giusta: perché la Russia dovrebbe pagare la ricostruzione dell’Ucraina e Israele non dovrebbe pagare quella di Gaza?), il giornalismo italiano tocca un’altra vetta inesplorata: l’intervista censurata per risposte sbagliate. L’intervistato è il ministro degli Esteri russo Lavrov: il Corriere gli aveva inviato una serie di domande scritte, a cui il ministro ha dato altrettante risposte scritte. Ma il Corriere – dice Lavrov – gli ha comunicato che le sue risposte “contengono troppe affermazioni discutibili che devono essere verificate o chiarite e la loro pubblicazione andrebbe oltre i limiti ragionevoli”. Lavrov ha proposto di pubblicare “una versione abbreviata nel cartaceo e il testo completo sul sito”, ma invano. Si pensava che la sua fosse l’ennesima puntata della famosa guerra ibrida di Mosca contro l’Italia e la sua libera stampa. Poi però il Corriere ha confermato tutto: Lavrov “ha risposto alle domande inviate preliminarmente dal Corriere con un testo sterminato pieno di accuse e tesi propagandistiche. Alla nostra richiesta di poter svolgere una vera intervista col contraddittorio e la contestazione dei punti che ritenevamo andassero approfonditi, il ministero ha opposto un rifiuto categorico. Evidentemente pensava di applicare a un giornale italiano gli stessi criteri di un Paese come la Russia dove la libertà d’informazione è stata cancellata. Quando il ministro vorrà fare un’intervista secondo i canoni di un giornalismo libero e indipendente saremo sempre disponibili”.

Già, ma è stato il Corriere a chiedere un’intervista a Lavrov, non viceversa. E di solito, quando si intervista qualcuno, è per sapere come la pensa lui, non per dirgli come deve pensarla. Se il Corriere voleva porgli tutte le sacrosante obiezioni con le famose “seconde domande”, doveva chiedergli un’intervista orale. Purtroppo gli ha inviato le domande scritte e poi ci è rimasto male perché Lavrov non elogia Zelensky, la Nato e l’Ue, non insulta Putin, non attacca la Russia, insomma la pensa come il governo di cui fa parte. Roba da non credere, eh? A quel punto, fatta la frittata, non restava che pubblicare le risposte di Lavrov, magari aggiungendo commenti critici e fact checking (cosa che peraltro non si usa con i politici italiani ed europei che mentono, cioè quasi tutti). Invece l’intervista l’ha pubblicata Lavrov sul web, trasformando l’assist del Corriere in un gol a porta vuota. Come la Bbc col montaggio tarocco del discorso di Trump. Se il Corriere voleva dimostrare che la Russia ha abolito la libera stampa (come se servissero altre prove), ha ottenuto l’effetto opposto: dimostrare che in Occidente la libera stampa se la passa maluccio. Come se servissero altre prove.

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IL SILENZIO È D’ORO

Editoriale di Marco Travaglio

15 novembre 2025

La notizia che a Kiev, mentre i soldati vengono mandati al macello senza più uno scopo, i fedelissimi di Zelensky rubano tutto il rubabile dai fondi e dalle armi inviati da Nato e Ue senz’alcun controllo, viene accolta in Italia e nel resto d’Europa con un misto di sorpresa e incredulità. Ma come: noi paghiamo, gli ucraini crepano e il regime sguazza tra mazzette e water, bidet e rubinetti d’oro massiccio? Ma Zelensky non era il “nuovo Churchill” (Nancy Pelosi e Messaggero), il “De Gaulle ucraino” (Prospect Magazine), il redivivo “Scipione l’Africano” (Minzolini, Giornale)? E la sua Ucraina non era “incorruttibile” (Zafesova, Stampa)? In realtà bastava leggere l’inchiesta internazionale “Pandora Papers” del 2021 per sapere che Zelensky è una creatura dell’oligarca, prima latitante e ora detenuto, Ihor Kolomoisky, re dei metalli, finanziatore di milizie fascio-nazi (dall’Azov al Dnipro) e titolare della tv 1+1 che lo lanciò; e che il presidente ucraino ha una villa a Forte dei Marmi con 6 camere da letto, 15 stanze, parco e piscina, acquistata nel 2017 per 3,8 milioni, intestata a una società italiana controllata da una cipriota e mai dichiarata prima dell’elezione nel 2019, come pure una delle quattro offshore controllate da lui e dai suoi soci nella casa di produzione Kvartal95 con conti correnti in vari paradisi fiscali (Isole Vergini, Cipro e Belize). Uno dei soci, Timur Mindich, che fino all’altrogiorno ospitava Zelensky in casa sua, è l’uomo dal cesso d’oro e dalle credenze piene di pacchi di banconote da 200 euro, esentato dalla naja malgrado l’età da leva e appena fuggito all’estero grazie a una soffiata per scampare all’arresto: sarebbe il regista del sistema tangentizio che grassava il 10-15% di ogni appalto per il sistema elettrico. Che, non bastando i bombardamenti russi, veniva rapinato dal regime, come i fondi per le uniformi e persino i 170 milioni versati dalla Nato per costruire trincee di legno.

Notizie che non possono che galvanizzare il morale delle truppe superstiti intrappolate nelle sacche russe da Pokrovsk a Kupyansk, in attesa che Zelensky e il generale Syrsky (una sorta di Alì il Chimico o il Comico ucraino) la smettano di millantare successi e resistenze o di incolpare la nebbia e suonino la ritirata finché ci sarà qualcuno vivo da ritirare. Dinanzi alla disfatta militare e morale dell’Ucraina con i nostri soldi, i governi europei tacciono imbarazzati. Per promettere altri soldi, vista la fine che fanno, attendono tutti che la gente dimentichi le foto dei cessi d’oro. Tutti tranne uno, il più sveglio della compagnia: Antonio Tajani che, temendo di essere preceduto da qualcun altro, si affretta ad annunciare “un nuovo pacchetto di aiuti a Kiev nelle prossime ore”. Casomai non sapessero più cosa rubare.

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