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                      | L’AMARO CALICE 
 Editoriale di Marco Travaglio
 
 24 ottobre 2025
 
 Per Einstein, “la follia è fare sempre la stessa cosa aspettandosi risultati differenti”. È ciò che fa la Nato con l’Ucraina da 20 anni: scaraventarla contro la Russia e armarla fino ai denti perché la sconfigga al posto nostro (Kiev ci mette i morti, noi i soldi e le sanzioni ai russi, che danneggiano più noi che loro). Risultato: una disfatta via l’altra. L’Ucraina non entrerà nella Nato, è economicamente fallita, ha perso la Crimea, la guerra civile contro la resistenza del Donbass, l’intero Lugansk, il 75% del Donetsk, il 70% degli oblast di Kherson e Zaporizhzhia, ora pezzi di Sumy, Kharkiv e Dnipropetrovsk, oltre a centinaia di migliaia di uomini e a una montagna di armi Nato. Il consenso interno e internazionale di Putin è aumentato e l’economia russa, pur acciaccata, cresce molto più della nostra. Poi è arrivato Trump e ha sganciato gli Usa dalla linea suicida Nato-Ue: gli euro-folli lo considerano un idiota, intanto lui ci rapina con i dazi e ci vende a caro prezzo il gas che non importiamo più dalla Russia a buon mercato e le armi che compriamo da lui e regaliamo a Zelensky per continuare a perdere la guerra. Da 36 mesi esatti, sui 44 di invasione russa, Kiev non guadagna un metro 1uadrato di terreno: nell’ultimo anno ha perso in media circa 500 kmq al mese.
 
 Ma la vera questione non è quantitativa. È qualitativa: da un anno i russi demoliscono la “cintura fortificata” di 50 km tra Sloviansk e Kostantinovka (Donetsk), creata da Nato e Kiev dal 2014 con trincee, campi minati e città fortificate. E sembrano ormai prossimi a sbriciolarla, con l’ingresso nello snodo logistico, ferroviario e minerario di Pokrovsk e di lì in altre roccaforti fino a Kupyansk (oblast di Kharkiv). Dietro quella linea fortificata non c’è più una trincea: solo steppa indifesa fino a Dnipro e a Kiev. Perciò Zelensky, mentre finge che i russi siano in stallo, continua a implorare gli alleati di “fermare Putin”. Ma può fermarlo solo lui con un’offerta che non possa rifiutare. Le nuove sanzioni gli fanno il solletico, anche quelle petrolifere Usa. E non sarà qualche Tomahawk o Patriot in più a ribaltare le sorti della guerra. Perciò Trump ha rinviato il vertice con Putin: tra un mese, con l’inverno, si saprà dov’è giunta l’offensiva russa e forse Zelensky sarà costretto ad arrendersi non a Mosca, ma alla realtà. In tre anni e mezzo è passato (e l’Ue con lui) dal “vinceremo recuperando tutti i territori” al “non recupereremo i territori ma non ne cederemo nessuno”. Ora s’illude sulla tregua, che è il rifugio dei disperati: nessun esercito vincente concederebbe mai settimane o mesi di respiro al nemico perdente. Presto o tardi dovrà decidersi a bere l’amaro calice, che tre, due e un anno fa era molto meno amaro. Ma gli euro-folli non hanno fretta: tanto paghiamo tutto noi.
 
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                      | CHE BEGLI “ALLEATI” 
 Editoriale di Marco Travaglio
 
 25 ottobre 2025
 
 Un’incertezza e una certezza accompagnano le nuove sanzioni petrolifere imposte da Usa e Ue alla Russia. L’incertezza è su come Putin riuscirà ad aggirarle. La certezza è che l’ennesimo aumento del prezzo dei carburanti lo pagheranno i Paesi importatori, cioè noi. Come l’aumento del gas e i maggiori acquisti di Gnl dagli Usa dopo le sanzioni al metano russo e l’attentato terroristico ai gasdotti Nord Stream. Sono i gentili omaggi dell’Ue, da cui dovremmo fuggire a gambe levate per creare un’alleanza fra Stati ragionevoli e lasciare che i fanatici tedeschi, polacchi e baltici (Macron e Starmer, per fortuna, stanno per lasciarci) si facciano la loro agognata guerra alla Russia. Gianandrea Gaiani, su Analisi Difesa, unisce i puntini per precisare ancor meglio cosa intendiamo per Ue e per “alleati”. Dal 20 al 22 ottobre tre raffinerie dell’Est Europa che lavorano petrolio made in Russia hanno subìto strani “incidenti”. Il 20 ottobre è esplosa quella di Ploiesti, in Romania, di proprietà della russa Lukoil (un operaio ferito e impianti danneggiati). Poche ore dopo è scoppiato un incendio in quella di Szazhalombatta, in Ungheria. Il 22 ottobre ha preso fuoco quella di Bratislava, in Slovacchia. Una serie di autocombustioni che ricorda la catena di “misteriosi” attentati in acque italiane a petroliere-fantasma accusate di aiutare Mosca ad aggirare le sanzioni: misteriosi finché i pm hanno imboccato la pista più ovvia, quella ucraina. Naturalmente il governo si è ben guardato dal chiedere spiegazioni a Kiev, peraltro usa a compiere attentati in paesi europei “alleati”. Ma anche nell’Africa subsahariana, dove il capo dei Servizi ucraini s’è vantato di sostenere i terroristi islamisti legati all’Isis.
 
 Intanto è ancora in carcere a Rimini, in attesa di estradizione a Berlino, l’agente ucraino arrestato per aver guidato il commando contro i Nord Stream. Invece il complice catturato in Polonia non verrà consegnato. Il premier “liberale” polacco Tusk lo considera un eroe: “Il problema del Nord Stream non è che è stato fatto saltare in aria, ma che è stato costruito” e l’estradizione dell’attentatore “non è nell’interesse della Polonia”. Che è altamente indiziata di aver partecipato al piano, visto l’impegno con cui ostacola l’indagine. Il vicepremier e ministro degli Esteri polacco Sikorski, che dopo l’attentato twittò “Thank you Usa!”, si dice “orgoglioso del tribunale polacco che ha stabilito che sabotare un invasore non è un crimine”. Buono a sapersi. Siccome anche la Polonia inviò migliaia di uomini a invadere l’Afghanistan e l’Iraq nel 2001- 2003, chiunque volesse compiervi attentati non commetterebbe alcun crimine e non verrebbe perseguito, ma premiato. I terroristi, anzi gli eroi, prendano buona nota.
 
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                      | NATALE AI PARIOLI 
 Editoriale di Marco Travaglio
 
 26 ottobre 2025
 
 L’altra sera Jeffrey Sachs, l’economista Usa che sa tutto di Mosca e Kiev per aver collaborato con Gorbaciov, Eltsin, il presidente ucraino Kuchma e tre segretari generali Onu, ha avuto la sventura di imbattersi in Carlo Calenda a Piazzapulita. Mentre raccontava ciò che vide a Kiev nel 2013-‘14 nella cosiddetta “rivoluzione di Maidan” foraggiata dagli Usa per cacciare il presidente Yanukovich, reo di voler restare neutrale fra Nato e Russia, Calenda lo interrompeva: “Non è vero, ero al governo” (sì, ma ai Parioli, non a Kiev). E il prof, allibito: “Incredibile, lei non sa quanto gli Usa hanno pagato per rovesciare Yanukovich. Ero lì, l’ho visto, sono stato portato a Maidan. Mi hanno spiegato di aver dato 15 mila dollari a uno, 20 mila a un altro”. Lo disse pure l’inviata di Obama, Victoria Nuland: “Gli Usa hanno investito 5 miliardi per dare all’Ucraina il futuro che merita”. Poi dettò all’ambasciatore i nomi del governo golpista da mettere al posto del presidente eletto. Impermeabile ai fatti, Calenda farfugliava qualcosa sui vaccini e il Covid. Poi sparava: “Lei mente e fa propaganda putiniana”. Sachs trasecolava: “Mi sta dando del bugiardo? Sono scioccato, è odioso”. In effetti noi ai Calenda siamo così abituati da non farci più caso. Ma per chi viene da fuori dev’essere uno choc discutere con un ex ministro rimasto fermo alla lallazione: mamma-cacca, bello-brutto, buono-putiniano, pumpum-ratatatatà.
 
 Magari Sachs pensa che qui nessuno prenda sul serio Calenda. Invece questo caratterista che ha soppiantato le maschere da commedia dell’arte, anzi da cinepanettone (Natale ai Parioli) tipo il Cumenda, il Ganassa, il Bauscia, è considerato, invitato, lodato negli ambienti politico-giornalistici come quello “serio”, “preparato”, “riformista” (per mancanza di riforme). La sua collezione di fiaschi da magnager e da politico (si fa per dire) fa curriculum: meno ne azzecca, più piace alla gente che piace. L’altra sera deplorava che “nel 2014-22 l’Europa fu totalmente dipendente dal gas russo”. E si scordava di dire che fu pure grazie a lui. Nel 2016, ministro dello Sviluppo, volò col premier Renzi al Forum Economico di San Pietroburgo alla corte di Putin, da due anni sotto sanzioni Ue per l’annessione della Crimea. E dichiarò alla tv russa: “Nessuna grande azienda italiana ha mai chiuso bottega in Russia… e questo è un segno di amicizia. Qui ci sono tutte le grandi aziende, il presidente del Consiglio, il ministro, le associazioni economiche, le banche. Più di cosi#768; non potevamo portare, dovevamo traslocare il Colosseo…”. Se l’avesse saputo, Sachs avrebbe rivolto al conduttore la domanda che ogni essere senziente gli porrebbe ogni volta che vede il Calenda in tv: “Ma uno normale non l’avete trovato?”.
 
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                      | MA MI FACCIA IL PIACERE 
 Editoriale di Marco Travaglio
 
 27 ottobre 2025
 
 Medaglie. “Meloni e Giorgetti prudenti, sui mercati c’è più fiducia” (Mario Monti, 20.10). “Meloni è pragmatica, non è austera. Avevamo un’Italietta, ora abbiamo un’Italia che ha recuperato la sua centralità” (Elsa Fornero, 24.10). “Questa manovra è la nemesi della destra. Ma bene i conti in ordine” (Vincenzo Visco, Foglio, 22.10). “A Meloni darei 10 e lode. Avevo pronosticato che sarebbe diventata una nuova Thatcher” (Luigi Bisignani, Riformista, 24.10). Sono soddisfazioni.
 
 Diversamente onesti. “Tajani: ‘Non accettiamo lezioni di moralità dai 5Stelle’” (Dubbio, 24.10). Tranquillo, si era notato.
 
 Questo nome non mi è nuovo. “Edmondo Cirielli: ‘In Campania rimontiamo. Fico non ha esperienza’” (Giornale, 25.10). In effetti non ha fatto neppure una legge Cirielli per mandare in prescrizione centinaia di migliaia di crimini e salvare altrettanti delinquenti.
 
 Tupamaros. “Arturo Parisi: ‘Il Pd abbandoni la deriva estremista, rischia la riedizione del Fronte Popolare. Gentiloni potrebbe essere un buon federatore’” (Stampa, 24.10). Altre cazzate?
 
 Ossimori. “Ucraina, l’ora di una vera escalation difensiva” (Foglio, 24.10). Dopo la famosa controffensiva che arretrava, è la morte sua.
 
 Serve altro? “A dare manforte a Ranucci, il solito soccorso rosso del Fatto, che insiste nell’ipotizzare un incontro tra l’ex parlamentare FdI Ghiglia (oggi nell’ufficio del Garante) e altri importanti esponenti meloniani… Ma quali sarebbero le prove in mano a Ranucci?” (Felice Manti, Giornale, 25.10). Solo il filmato, che sarà mai.
 
 Nanoparticelle. “Pd, la scissione dei riformisti” (Stampa, 25.10). Detta anche la scissione dell’atomo.
 
 La congiura del silenzio. “La sfida dei riformisti Guerini, Gori, Picierno e Sala a Schlein: ‘Oggi riprendiamo la nostra voce’” (Corriere della sera, 25.10). “Se i riformisti del Pd ritrovano la voce” (Stefano Folli, Repubblica, 25.10). Erano giusto 10 secondi netti che non blateravano a reti ed edicole unificate.
 
 La parola all’esperto. “Il Vernacoliere ha 65 anni, il direttore e fondatore Mario Cardinale ne ha 89… Cardinale evoca dunque una crisi creativa… Solo Cardinale può rifondare l’umorismo pecoreccio…” (Francesco Merlo, Repubblica, 20.10). Cardinale si chiama Cardinali, ma tutto questo Merli non lo sa.
 
 Borsa Valori/1. “Giorgio Gori: ‘Pd troppo a sinistra. Campo largo sì, ma senza tradire i nostri valori’” (Stampa, 26.10). Quelli di Canale 5, di Rete 4 o di Italia Uno?
 
 Borsa valori/2. “La supremazia dell’immagine impedisce di percepire il pericolo grave che Putin rappresenta per l’Europa e per i nostri valori” (Aldo Grasso, Corriere della sera, 26.10). “Draghi avverte l’Ue: tutti i nostri valori sono sotto attacco” (Repubblica, 25.10). Più che altro sono sepolti a Gaza sotto 61 tonnellate di macerie.
 
 Le basi. “Mani, piedi, altezza e peso: Sempio misurato dai pm” (Giornale, 25.10). Cioè: indagano su di lui da mesi e non sanno neppure quanto è alto?
 
 Tagadà Trallallà. Tonia Mastrobuoni (Repubblica): “È falso che le sanzioni non funzionano, anzi funzionano talmente bene che la Russia è stata costretta a dirottare tutta la sua esportazione di petrolio e gas verso l’India e la Cina… Il prezzo del petrolio sta crescendo… perché i mercati pensano che queste sanzioni avranno enormi conseguenze… E il Donetsk non riesce a essere conquistato dai russi da tre anni… Quindi dov’è che l’Ucraina sta perdendo la guerra?”. Ettore Licheri (M5S): “Ma sa da quanto tempo io sento che la Russia sta per perdere, che è a un passo dal default e che non è vero che l’Ucraina sta perdendo? Da tre anni… Che lei mi dica che l’Ucraina non sta perdendo questa guerra mi fa intendere che stia venendo da Marte, perché sa benissimo che non è così. Io capisco la linea editoriale del suo giornale”. Mastrobuoni: “Non si permetta, perché la querelo. Lei dice così tante baggianate che ha bisogno di insultare sul piano personale”. Licheri: “Ma cosa ho detto? Su, non sia così permalosa”. Mastrobuoni: “Il senatore Licheri è un cialtrone e offende sul piano personale perché non ha argomenti”. Licheri: “Ma ho parlato di una linea editoriale, non ho offeso il suo onore e la sua reputazione…” (Tagadà, La7, 23.10). Dev’essere perché ha ipotizzato che Repubblica sia un giornale e abbia una linea editoriale: roba da querela. Mica come dare del cialtrone a un senatore.
 
 Il titolo della settimana/1. “Come si affronta un propagandista. Principi saldi e parole di verità, Calenda mette in riga il putiniano Sachs” (Foglio, 25.10). Uno dei famosi putiniani della Columbia University di New York.
 
 Il titolo della settimana/2. “Tra due anni una nipotina di Almirante al Quirinale non so se riuscirei a reggerla. Io tifo per il tris di Mattarella… Avrà la bellezza di 86 anni, quando nella primavera del 2027 scadrà il suo secondo mandato” (Massimo Giannini, Venerdì-Repubblica, 24.10). A parte che il secondo mandato scadrà nel gennaio del 2029, quando avrà la bellezza di 88 anni, noi tifiamo pure per il quater: a 95 anni sarà ancora un pischello.
 
 Il titolo della settimana/3.
 “Kamala Harris non esclude ri ricandidarsi alla Casa Bianca” (Repubblica, 26.10). Gliel’ha chiesto Trump.
 
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                      | 30 ANNI E NON SENTIRLI 
 Editoriale di Marco Travaglio
 
 28 ottobre 2025
 
 Da quando l’autorevole Foglio lo scrisse sette giorni fa, tutti parlano di una sentenza della Cassazione che avrebbe “assolto” B., alla memoria, da quelle brutte dicerie di rapporti con la mafia. C’è pure il virgolettato: “Nessun legame di Berlusconi e Dell’Utri con Cosa Nostra”. Essendo improbabile che il Foglio pubblichi una notizia vera, ma ancor più che la Cassazione processi e assolva un morto, ma ancor più che oggi la Cassazione smentisca la Cassazione che nel 2014 condannò Dell’Utri a 7 anni per concorso esterno in mafia per aver mediato per 18 anni l’“accordo concluso tra gli esponenti palermitani di Cosa nostra e Berlusconi”, ci siamo procurati l’ormai celebre documento. Lo trovate qui accanto: 5 parole (“Dichiara inammissibile il ricorso del Pg”) che non nominano mai B. e i suoi rapporti con la mafia. Né potrebbero farlo: la Cassazione si limita a confermare l’“inammissibilità totale” del ricorso del Pg di Palermo contro la decisione di Tribunale e Corte d’appello di negare la sorveglianza speciale e la confisca dei beni per Dell’Utri chieste dalla Procura. Per i giudici di primo e secondo grado, i pm non hanno provato che B. e Dell’Utri riciclassero capitali mafiosi e che B. riempisse di milioni Dell’Utri per comprarne il silenzio. E per la Corte d’appello, se già il pm impugna su misure di prevenzione, non può ricorrere pure il Pg. La Cassazione sembra condividere, ma le motivazioni non le ha ancora scritte: per ora c’è solo il dispositivo.
 
 Una sola cosa è certa: la sentenza non potrà smentire quella irrevocabile del 2014 non su generici “rapporti”, ma sull’“accordo di reciproco interesse concluso nel 1974 tra Cosa Nostra, rappresentata dai boss Bontade e Teresi, e l’imprenditore Berlusconi” e durato fino all’anno di Capaci e via D’Amelio: “In cambio della protezione assicurata, Berlusconi aveva iniziato a corrispondere, a partire dal 1974, agli esponenti di Cosa nostra palermitana, per il tramite di Dell’Utri, cospicue somme di denaro”. Questo dice l’unica vera sentenza della Cassazione sul tema, infatti non la conosce nessuno. Così B. ha potuto continuare a far politica, anche dopo la condanna a 4 anni per frode fiscale, e perfino salire al Quirinale da Mattarella. Che non è un omonimo, ma il fratello di Piersanti assassinato dalla mafia di Bontate e Teresi finanziata da B.. Ora, rispondendo ai piagnucolii di Marina B., perfino il presidente Anm Cesare Parodi prende per buona la sentenza che non c’è e lamenta che il povero B. sia stato riabilitato in una “vicenda che dura da 30 anni”, indegna per “un Paese civile”. Ma il processo Dell’Utri è finito nel 2014 e il procedimento di prevenzione è durato appena quattro anni. L’unica vicenda indegna che dura da 30 anni è la leggenda del Santo Cavaliere.
 
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                      | NOTORIA DIPENDENZA 
 Editoriale di Marco Travaglio
 
 29 ottobre 2025
 
 La sconcezza del “garante della privacy” Agostino Ghiglia a rapporto nella sede FdI poco prima di votare la multa da 150 mila euro a Report s’è chiusa, per ora, a tarallucci e vino. Ghiglia ha detto di aver fatto tutto nella massima trasparenza: doveva parlare di libri con Italo bo*****o (e con chi se no) e ha incrociato di sfuggita Arianna Meloni nella sede del suo partito. In effetti, in quale altra sede avrebbe dovuto recarsi: quella del Pd o dei 5S? Il piccolo problema è che la legge impone “figure di notoria indipendenza” per le autorità di garanzia, mentre lui – ex parlamentare e dirigente Msi, An e FdI – è di notoria dipendenza. Come quasi tutti i membri delle “authority”, ridotte a cronicario per politici trombati o in via di riciclo. Quindi lo scandalo non è Ghiglia nella sede di FdI, ma nell’ufficio del Garante della Privacy. Vengono le lacrime agli occhi a pensare chi ne fu il primo presidente: Stefano Rodotà, un giurista che si sarebbe fatto uccidere per non subire pressioni politiche. Dopo di lui, il diluvio. Gli subentrò Soro, ex capogruppo del Pd, e trovò già lì l’ex deputato verde Paissan. Intanto all’Antitrust era planato Guazzaloca, ex sindaco di destra a Bologna appena sconfitto, ma soprattutto macellaio. Alla Consob regnò il forzista Vegas, passato senza fare un plissé da viceministro di B. ad arbitro dei mercati finanziari. In Consob c’è pure Gabriella Alemanno: non omonima, ma sorella di Gianni. Poi c’è l’Agcom: B. ci piazzò il manager di Publitalia e deputato forzista Martusciello nonché il dirigente Mediaset e sottosegretario Innocenzi; la Lega il suo parlamentare Capitanio. Poi arrivò Monti e nominò presidente un suo ex collaboratore in Ue, Cardani, seguito dal dem Giacomelli, sottosegretario uscente di Gentiloni. Quanto all’Antitrust, è guidata da Roberto Rustichelli, ex consigliere del governo B. e magistrato (un ossimoro).
 
 Ma il caso più strepitoso è quello di Giancarlo Innocenzi, detto “Inox”, all’Agcom. Nel 2009 la Procura di Trani lo intercetta mentre B. gli detta un nuovo editto bulgaro: “Chiudiamo tutto, non solo Santoro: aprite il fuoco su tutte le trasmissioni di questo tipo”. Inclusa la Dandini. Lo incalza, lo ca**ia, lo stalkerizza. Inox è disperato: “Berlusconi mi fa uno shampoo dopo l’altro e mi manda a fare in c**o due volte al giorno”. Mobilita altri commissari. Vuole che il presidente Calabrò minacci la Rai con una multa del 3% sul fatturato (90 milioni). Persino Mauro Masi, Ad berlusconiano della Rai, definisce la pretesa di B. “roba che nemmeno nello Zimbabwe”. Ma l’anno dopo sia Santoro sia Dandini spariscono dalla Rai. Questo sono le “authority”: un Var gestito da Juve, Milan, Inter, Roma e Napoli. O le aboliamo, o cacciamo i partiti, o la smettiamo di meravigliarci.
 
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                      | LE INTERFERENZE BUONE 
 Editoriale di Marco Travaglio
 
 30 ottobre 2025
 
 La democrazia 2.0 avanza così spedita che non si riesce a starle dietro. Sugli house organ dei famosi “valori occidentali” sono in corso i baccanali per il trionfo di quella motosega di Javier Milei in Argentina. E a sinistra ci si interroga pensosi su come sia possibile che un Paese fallito e rifallito preferisca uno che fa danni da 2 anni ai peronisti che ne fanno da 80. Manca solo il frescone di turno a spiegarci che “si vince al centro”, ma prima o poi arriva. Mentre sono tutti impegnati in polemicuzze da ballatoio sul tasso di liberismo, riformismo e sovranismo di un presidente salvato da uno Stato estero con fondi pubblici, nessuno si occupa della probabile concausa del successo di Milei: il fattore Usa. Un mese fa Milei perde le Amministrative e pare spacciato. Ma Trump gli allunga un assegno di 20 miliardi, lo riceve alla Casa Bianca e ne promette altri 40, ma a una condizione: che le Legislative di medio termine le vinca largamente Milei. Gli argentini imparano la lezione e votano bene.
 
 Provate a immaginare se a comprare i loro voti con una rata prima delle urne e una dopo (come le due scarpe di Achille Lauro) non fosse stato Trump, ma Putin. I nostri atlantisti strillerebbero al voto truccato, agli hacker russi, al complotto putiniano, alla guerra ibrida. Avvisterebbero droni prêt-à-porter dalle parti di Buenos Aires. E chiederebbero ai governi occidentali di non riconoscere le elezioni per farle annullare. Cosa che alle Von der Leyen e alle Kallas non c’è bisogno di chiederla: procedono di default ogni volta che vince il candidato sbagliato. Come in Ucraina nel 2004 e nel 2014, poi in Georgia, Romania (lì, non contenti di annullare le elezioni vinte da Georgescu, hanno pure arrestato il vincitore), in Cechia e Slovacchia. Voi direte: ma da noi non si usa promettere soldi a un Paese in difficoltà se vince Tizio o Caio. Magari: è appena accaduto in Moldova. Un mese fa l’Ue teme che la coalizione della presidente filo-Ue Maia Sandu perda le elezioni per le solite interferenze di Putin. Per non interferire, Macron, Merz, Tusk e Zelensky si uniscono alla Sandu per ammonire i moldavi a votare come dice lei perché “un governo amico di Mosca sarebbe un trampolino di lancio per attacchi ibridi contro l’Ue”. E, sempre per non interferire, la commissaria Ue Marta Kos intima ai moldavi di “scegliere fra democrazia e regime”: se voteranno male, perderanno gli “investimenti dell’Ue” che “sta dando un sostegno senza precedenti alla democrazia”. Intanto la “democrazia” moldava mette fuorilegge due partiti di opposizione perché “filorussi” (cosa piuttosto strana in un Paese pieno di russi della Transnistria). Alla fine, sorpresona: rivincono gli europeisti, i fondi Ue continuano ad arrivare, la democrazia è salva.
 
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                      | CHE COSA SEPARANO 
 Editoriale di Marco Travaglio
 
 31 ottobre 2025
 
 Oggi il Fatto riprende la battaglia in difesa della Costituzione contro l’ennesima schiforma che la stravolge in peggio: la separazione delle carriere e dei Csm fra giudici e pm e l’esproprio del potere disciplinare affidato a una ridicola Alta Corte (unica per giudici e pm). È una battaglia, quella per il No al referendum, cruciale e sacrosanta, che va combattuta a prescindere dalle chance di vittoria. Peraltro anche il No alla schiforma B.-Calderoli del 2006 e alla Renzi-Boschi-Verdini del 2016 era dato perdente in partenza, e poi stravinse. Speriamo di portare fortuna anche contro la Gelli-Craxi-B.-Nordio-Meloni.
 
 Oggi, grazie ai Padri Costituenti (quelli veri del 1946), l’assetto costituzionale della magistratura è un modello per il mondo intero. Pm e giudice fanno parte della stessa carriera, con la stessa formazione e lo stesso concorso, perché devono perseguire entrambi la verità processuale: il pm la cerca, il giudice la accerta. Perciò devono essere entrambi imparziali e quindi indipendenti da ogni altro potere. Il pm non è l’accusatore, cioè l’avvocato delle forze di polizia: ricevuta una denuncia o una notizia di reato, è obbligato a esaminarla per accertare se ha ragione l’indiziato o il denunciante. Deve cercare tutti gli indizi senza nasconderne nessuno, altrimenti commette reato (rifiuto di atti d’ufficio) e illecito disciplinare. Nulla a che vedere con l’avvocato, che tira l’acqua al mulino del cliente che lo sceglie e lo paga: il difensore deve far assolvere il cliente e mai gli verrà in mente di rivelare fatti a suo carico, altrimenti commette reato (infedele patrocinio) e illecito disciplinare. Il pm persegue la verità per conto della collettività, il difensore l’interesse del suo assistito. Due figure fondamentali in uno Stato di diritto, ma impossibili da paragonare. Perciò il Consiglio d’Europa dal 2000 raccomanda agli Stati di “consentire a una stessa persona di svolgere successivamente le funzioni di pubblico ministero e quelle di giudice”: è il modello italiano che l’Italia getta a mare. È ovvio a tutti che un pm e un giudice con la stesa cultura della verità e dell’imparzialità sono la miglior garanzia per tutti: sia per le vittime dei reati sia per gli indagati. Purtroppo quel passaggio è già oggi ostacolato dalle leggi Castelli-Mastella del 2006 e Cartabia del 2021: infatti ogni anno solo lo 0,2% dei magistrati cambia funzione. Quindi non è per questo scopo inutile che le destre investono tante energie. Né per lasciare indipendente una casta di 2.250 pm sganciati dalla cultura del giudice, cioè di accusatori assatanati e “giustizialisti”. È per poterli mettere al guinzaglio del governo. Che deciderà contro chi scatenarli e chi salvare. Le vittime della schiforma non saranno i magistrati, ma noi cittadini.
 
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